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Cos'è la luce nera?

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Messaggio Da Angelodiluce Lun Dic 07, 2009 9:05 pm

Cos'è la luce nera?

Elémire Zolla ripercorre millenni di profonde ricerche sul mistero della
Luce

Dunque, cos'è la luce?

di Elémire Zolla

La domanda è fra le più sconvolgenti, perché a volerla portare fino in
fondo, si deve giungere a trovare il nucleo della luce in uno splendore
nero, anteriore al fulgore solare. Una torsione che molte menti non vorranno
mai compiere. Tanto che sulla luce le idee sono quasi sempre confuse e
contraddittorie. Esaminiamo ciò che sulla luce si è pensato in Israele. La
Genesi fa operare un Dio che all'inizio, per prima cosa crea la luce di
contro alla tenebra e la trova buona.

Compare così la prima coppia di opposti che lottando suscitano la realtà, ma
essi sono anteriori alla luce che noi vediamo, poiché il sole sarà creato
soltanto al quarto giorno del Genesi. Dunque la luce primordiale è anteriore
a quella visibile, la tenebra primordiale anteriore a quella che ci
aggredisce e circonda la notte. La coppia lucetenebre sarebbe, alla luce
della Qabbalah tarda di Sfat, il primo segno che Dio ha cominciato a
ritrarsi su se stesso, lasciando uno spazio libero teso tra luce e buio.

La Qabbalah dirà che l'azione emanativa di Dio nel mondo si può anche
denotare come un'azione restrittiva che apre il mondo all'essere lungo due
linee distinte, una di luce, che ìrraggia via via sapienza, misericordia,
vittoria, un'altra opposta, di luce soverchiante, acciecante, che sembra
nera, fatta via via di conoscenza, violenza, gloria. A questo punto per il
pio l'opposizione fra tenebra e luce diventa apparente.

La meditazione cabbalistica si concentrò sul fuoco che arde un legno e
distinse nella vampa la parte inferiore, la radice nera che sta aggrappata
al legname e lo divora per poi espandersi in un bagliore rosso, il colore
dei crepuscoli accesi, e infine affinarsi dal giallo al bianco, quando
scompare, diventa invisibile, ma bruciante. Su questo spettacolo
meraviglioso i cabbalisti hanno meditato nel secoli. Nella pratica ebraica
c'è una grande festa della luce che cade al Natale dei popoli circostanti in
Europa, il genetliaco del sole che fu poi attribuito al Cristo.

Gli Ebrei la chiamano festa della dedicazione, e non si concentrano sulle
linfe che ora salgono nei tronchi degli alberi, ma sul fatto che quando Mosè
dedicò l'altare a Dio vi scese dai cieli una luce che deflagrò. Per
celebrarla si accendono candelabri o lampade e sotto la loro luce nulla di
profano si deve compiere. Radicalmente diversa fu la concezione della luce
fra i cristiani. Davvero non si vede come possa conciliarsi il dettato del
Vangelo di Giovanni col Genesi.

Per l'Ebreo Dio come potenza creatrice pose i cieli e la terra informe, una
distesa di acque tenebrose su cui aleggiava lo spirito divino, quindi separò
luce da tenebra, giorno da notte. Il Dio di San Giovanni è consustanziale
alla "parola", grazie alla quale tutto fu fatto all'inizio e "in" essa era
la vita che fu luce agli uomini e che le tenebre mai hanno ricevuto. I
teorici cristiani ne ricaveranno che Dio fosse trino, composto di un Figlio
e di uno Spirito oltre che di se medesimo quale Padre. La luce gli è
intrinseca, non è dunque creata.

Fra l'ebraismo ed il cristianesimo c'è un contrasto violento, il Dio di
Israele crea la luce primordiale, anteriore al Sole, il Dio trino dei
cristiani ha in sé la luce come suo carattere essenziale. Alla fine del
lungo esercizio di conciliazione fra San Giovanni e Genesi la meditazione
cristiana culmina nel Paradiso perduto di John Milton. Il poema incomincia
descrivendo l'inferno dove sono precipitati gli angeli ribelli, un carcere
orrendo, una vasta fornace le cui fiamme tuttavia non spandono luce, ma
diffondono una "oscurità visibile".

Che significa l'ossimoro? Forse qualcosa di simile all'oscurità in cui si
orientano i pipistrelli vaganti con i loro radar nella notte? E' un'oscurità
angosciata, la visione non vi si accende, le fronde non ne traggono la loro
verzura. Dopo i due primi canti, il terzo invece si apre con un'esclamazione
di festa, un'esplosione di luce: Hail holy light: Salve sacra luce! La luce
primordiale è sacra, primogenita, direbbe un seguace del Genesi ebraico, ma
un cristiano tenderebbe invece a vederla come un raggio coeterno dell'Ewrno,
poiché Dio è luce.

Milton non osa decidere, la luce primordiale per lui è of heavenfirst-born,
primogenita del cielo, come aveva detto Roberto Grossatesta nel Medioevo: la
prima forma corporea, ma potrebbe anche essere of th'Eternal co-eternal
beam, raggio coeterno dell'Eterno, come si può già leggere nella Sapienza,
dove Dio è chiamato luce eterna. Dopo aver proposto le due tesi
contraddittorie, Milton fa una domanda curiosa, May I express the unbIamed?
Posso esprimere ciò che non è incolpato?

E' un modo di domandarsi se possa esprimere Dio e il primo atto creativo. O
è anche un modo di suggerire che soltanto l'incolpato si può esprimere?
Continua il canto disteso sulla luce: " Dio è luce e fin dall'eternità ha
sempre dimorato nella luce inaccessibile, effusione brillante di brillante
essenza increata. 0 si preferisce sentir parlare di una corrente eterea la
cui sorgiva è indescrivibile? Prima del sole, prima dei cieli tu luce fosti
e alla voce di Dio avvolgesti come di un mantello il mondo delle acque scure
e profonde che sorse, strappata al vuoto infinito e informe". Credo sia
lecito e giusto affermare che la melodia maestosa di Milton copre una
confusione, sommerge nella sua piena lirica il contrasto insanabile del
Genesi e del Vangelo giovanneo.

All'inizio delle riflessioni cristiane apparve un testo sublime, la Teologia
mistica dello Pseudo Dionigi l'Aeropagita e fu assunta tra i documenti
fondamentali, da essa presero l'avvio le innumerevoli meditazioni mistiche
sulla luce nei secoli. Parte da Dio come Trinità, cui si rivolge però col
rigore di un metafisico ebreo, dicendo: "Tu sei aldilà dell'essere, del
divino, del bene". Ci costringe così in apertura ad un regresso aldiqua di
questi concetti sui quali siamo fondati; sbarazzati dei quali, dobbiamo dire
di trovarci dinanzi al nulla. Se siamo in grado di reggere a queste
spoliazioni, ci troveremo in una caligine lucente, in un silenzio parlante.

Lo Pseudo Dionigi dà per attinta questa condizione iniziatica e aggiunge:
"Quanto più fitta è la tenebra, tanto più risplende e altamente irraggia;
quanto più è impalpabile e invisibile, tanto più inonda di mirabili
splendori le menti senza sguardo per le cose sensibili". Si propone qui
un'idea di Dio come caligine raggiante, posta aldisopra dell'essere, né
anima, né spirito, né parola, né pensiero. Ma portandoci a questo livello,
lo Pseudo Dionigì non sta forse tradendo il testo giovanneo? Se Dio non è
parola, se non è luce, che rapporto avrà mai con quel Dio consustanziato di
parola e di luce?

In realtà il Dio dello Pseudo Dionigi sfugge alle parole, alle nozioni, non
è tenebra e non è luce, semmai è tenebra lucente, luce nera. Lo Pseudo
Dionigi conclude: "Precisiamo infine quest'ultima cosa, né affermazione né
negazione sono degne di Lui. Che anzi, sia che si possa affermare, sia che
si possa negare, noi nulla affermiamo o neghiamo di Lui". Come dirà verso la
fine della Scolastica Nicola di Autrecourt, ' Dio è" e ' Dio non è"
esprimono lo stesso significabile, alterando soltanto i significanti ('è',
"non é"). Quale assurdo, a questa altezza metafisica, parlare della luce di
Dio!

Eppure perfino della luce nera ben pochi mistici nei secoli osarono mai
parlare. Fu interessante nella Cristianità la sopravvivenza di una nozione
di luce ereditata dall'esoterismo antico: la luce sarebbe il quinto elemento
dopo terra, aria, acqua, fuoco e avrebbe un carattere seminale, procreativo
e compaginante, servirebbe a connettere l' anima al corpo. Questa luce che è
seme, etere, forza connettiva sarebbe sepolta nella materia, da cui
l'alchimia si sforza di estrarla.

Roberto Grossatesta ne approfondì il concetto: la luce illuminante è un
punto inesteso, ma emana e forma una sfera, per poi ritornare nella sua
inestensione, le cose del mondo sono materia che partecipa a questa prima
forma esemplare in vario modo e gradatamente. Dalla sapienza antica giungeva
la dottrina platonica, che faceva precedere la luce visibile da quella
intelligibile, che i neoplatonici facevano coincidere con l'uno. Da questo
promana la luce solare, come lume da lume. Il mondo antico insegnava dunque
a orecchie non sempre aperte che anteriore alla luce che illumina il mondo
esiste una luce mentale, nera.

Ma per intendere il pensiero occidentale sulla luce occorre andare dietro al
pensiero greco, esplorare i detti dei libri sacri iranici, impostati
sull'idea che da un re sacro emani una luce abbagliante che fa tutt'uno col
suo destino glorioso, con la sua qualità di vincitore, una luce che fa
trionfare, come la futura Nìke greca, dominare, come il futuro Michele
cristiano, fa vedere tutto ciò che nel mondo accade. Non è la luce che
scende dal sole o dalla luna, questa emana direttamente dal cuore del
sovrano e gli circonda la testa, si chiama xvar nah parola legata a hvar,
sole. Ritroviamo la stessa radice indoeuropea suel nel sanscrito, nella
parola svar, e nell'India troviamo la spiegazione più accurata della luce e
della sua genesi.

Esiste una luce visibile, che irraggia il giorno, ma esiste una luce più
fina, che proviene dalla mente stessa e delinea le figure dei sogni
notturni. Questa è la luce più intrinseca all'uomo, anteriore all'esterna.
Se la realtà visibile è un'illusione, un sogno, la sua luce sarà meno reale
di quella dei sogni veri e propri. La Brihadaranyaka Upanishad (IV 111)
spiega che l'intelletto emana l'essenza della luce come puro fulgore jyotih
e in essa sta l'essere, atman. A distanza di millenni queste riflessioni ci
appaiono ancor più evidenti: sappiamo che onde (un'esigua frazione dello
spettro elettromagnetico) lambiscono il cervello, che le trasforma in
immagini.

Fuor della mente esistono soltanto queste onde minime che registriamo sulla
retina, ma la luce proviene da noi. Sicché la luce che traccia le figure del
sogno è anteriore ontologicamente alla luce che delinea la realtà della
veglia. La luminescenza del sogno è la prima forma della luce. Al sommo si
deve porre l'intelletto puro o lume nero, che si esprime proiettando il lume
dei sogni prima e poi la luce diurna esteriore. La Kena Upanishad dice che
l'essere creatore, brahamn è un lampo, un batter di palpebre.

Nella Brihadaranyaka Upanishad il re discorre con un sapiente ed estrae nel
più semplice dei modi la dottrina della luce. "Qual è la luce che muove
l'uomo?", domanda, e il saggio risponde prima il sole, e quando esso manchi,
la luna e quando anch'essa manchi, un fuoco acceso. Ma senza nessuno di
questi lumi esterni e visibili, da che cosa sarà mosso l'uomo? Da un
discorso che gli dia luce. E quando non ci sia nemmeno un discorso? l'uomo
si reggerà nel buio e nel silenzio, mercè il suo semplice essere, che è la
luce coinvolta nei soffi che lo reggono, emananti dal cuore dove la luce
cova nascosta (IV, 3, 1-7).

Una luce nera. Ancor prima di queste dimostrazioni filosofiche c'era stata
la verità vedica, espressa in forme mitiche, ma profonde e ancor oggi vive
nei riti quotidiani dei fedeli indù. Giorno e notte erano vedicamente due
aspetti del cosmo, che si unificavano nell'Androgino o Torovacca,
l'Intermedio che fu emanato dalla voce divina. Il cosmo è retto da una
colonna che si esprime col nome di Aum e nella forma della luce come occhio
e fuoco uniti. Nome e forma sono due principi che reggono ogni realtà.
Meditando sul nome Aum si comprenderà dunque il significato della luce.

I trattati di meditazione insegneranno questo esercizio: ci si concentri sul
proprio cuore immaginandolo come un loto inclinato. Si opererà su questa
forma, sollevandola, e quindi guardandole dentro. Dovrà emergere dal suo
cuore la luce. Si vedrà al centro la lettera A, il disco solare, la veglia;
approfondendo la lettera U, il disco lunare, il sogno; approfondendo ancora
la lettera M, il sonno senza sogni. Ma chi medita a fondo procede aldilà di
questa triade, fino a quella che si è chiamata una catalessi, una
consapevolezza nel sonno, uno stato di liberazione e nel loto del cuore si
dovrà vedere il vago mormorio, l'estinguersi della M, la luce nera.

Costante ritroviamo la scoperta di questa luce nera aldisotto dei fulgori
diurni nella tradizione greca, in quella indù, ma anche nella filosofia
persiana, dove nei secoli si è svolta con precisione incantevole e Henry
Corbin la seppe esporre ad un Occidente ignaro e confuso. E' come se la xvar
nah dei tempi zoroastriani si trasmettesse ai filosofi dell'epoca islamica:
Qotboddiri Shirazi chiarnerà xvar nah la luce che dalle Intelligenze
immateriali scende nell' anima mercè gli esercizi spirituali svolti con la
volontà ferrea di attingere i piani soprannaturali dell'essere.

Questa luce attinta nella meditazione è un elisir, è il nimbo dei re
antichi, è la folgore divina. La tradizione islamica era fondata su un
raptus coranico ìntorno alla luce, alla sura XXIV: " Dio è la luce dei cieli
e della terra e si rassomiglia la sua luce a una nicchia in cui è una
lampada e la lampada è in un cristallo ed il cristallo è come una stella
lucente e arde la lampada dell'olio di un albero benedetto né orientale, né
occidentale, il cui olio per poco non brilla anche se nessun fuoco lo
tocchi. E' luce su luce".

Al Ghazali scrisse un sublime trattatello su questo passo, interpretando la
nicchìa come la sensibilità dell'uomo, la lampada come lo spirito profetico
e il fuoco come lo spirito divino, mentre Dio soltanto è in se stesso luce.
Quando questa luce scende nel cuore sfolgora la lampada. Il cristallo è
l'immaginazione, che va purificata e corretta finchè diventi pura
trasparenza immaginale degli archetipi. L' albero è lo spirito ragionante e
l'olio che se ne trae è lo spirito profetico. Impregnato da Plotino, Al
Gliazali afferma che la parola luce data a cosa diversa da Dìo è una pura
metafora senza realtà.

Ma la prima accezione, volgare, dì luce designa ciò che è visibile e rende
visibili altre cose, come sole, luna, fuochi; la seconda accezione, propria
di chi abbia elevatezza, designa la facoltà visiva. Ma cè una terza
accezione, la più veridica, per cui la luce è la facoltà intellettuale, che
tutto vede. L' occhio merita la parola luce più della luce, l'intelletto
ancor più dell'occhio (e luce è Dio!). Forse fu Sohrawardi il filosofo che
ne seppe parlare con la massima precisione e poesia, specie nel Racconto
dell'arcangelo imporporato.

"Dov'è la fonte di vita Egli si domanda, e risponde: - Mettiti i sandali di
Elia profeta e avviati fiducioso là dove si ha piena coscìenza della
tenebra. Quando di tenebra sarai tutto circondato e serrato, quando sarai
confitto nella notte, avrai fatto il primo passo. Seguiranno stupefazioni e
strazi, poichè da questo punto di vista la realtà si capovolge. Ma alla fine
attingerai la fonte e lì scorgerai il lume. Non scappare, ma bagnati ìn
quella luce, Dopo non potrai più essere colpito o insudiciato. Immergiti in
quella luce e dirai: "Dinanzi a me le letture si allontanano, Presso di me i
sensi si aguzzano".

Si potrebbe recitare anche un altro passo di Sohrawardi: "Eleva la salmodia
della luce, Soccorri il popolo della luce, guida la luce alla luce".
Infinito tema è questo della cerca nella tenebra. Lo riprese Najmí Kobrá,
Egli esorta a chiudere gli occhi e a vedere così la luce. Dice: Tu vuoi
vedere, ma l'oscurità della tua natura ti sta così addosso che ti impedisce
la vista interiore. Se vuoi vedere la luce tenendo gli occhi serrati,
comincia con l'allontanare o diminuire qualcosa nella tua natura". Occorre
lottare nel farlo, salmodiando, finchè si vedrà la nube nera del male
diventar rossa e infine sbianchire.

Alla fine sfolgora una luce verde, la luce smeraldina della conoscenza,
emanante dal cuore. E' la stessa luce d'origine cordiale di cui ci parla il
buddhismo himalayano, concretandola in una figura di fanciulla sfolgorante,
la Tara verde, traghettatrice verso la liberazione. Un allievo di Kobrá,
Najm Rázi (nato nel 1256) parlò più a lungo dei colori accesi nella vista
interiore. Prima è il bianco dell'abbandono, poi il giallo della preghiera,
il turchino della benevolenza, il verde dell' anima pacificata. E' forse lo
stesso verde dì cui parlava come termine ultimo dell'ascesa Kobrá; ma Rázi
aggiunge dopo di esso la luce glauca della certezza e la rossa
dell'intelletto attivo, divino.

Infine giunge alla luce nera, alla settima tappa, la suprema, dell'amore
estatico, al fondo entusiasta e urlante dell' anima. Nera è la maestà che
incendia e annienta, dìce Rázi, la suprema teurgia, l'aldilà dei sei colori,
della bellezza, il sublime che fa esistere, in cui pullula la fonte della
vita. Lahiji nel Roseto del mistero insiste sull'annientamento di noi stessi
che avviene nel nero smagliante, nella notte fonda e abbagliante, nel
mezzogiorno tenebroso.

Sarà superfluo citare le notti mistiche dell'Europa secentesca, che
propongono la stessa verità: dal nero assoluto sprigiona ogni luce, prima
del sogno, quindi della realtà. Per raggiungere questo luogo spirituale
supremo, occorre fare un viaggio pericoloso. Osò parlarne con la massima
precisione Ibn 'Arabi, dicendo che per farlo si deve diventare animali:
spogliarsi della ragione umana e ridursi alla percezione della fiera,
soltanto a questo patto si avrà la visione degli archetipi supremi. In Ibn
'Arabi è consegnato ad una pagina delicata e sottile il messaggio ripetuto
con costanza in tutte le civiltà sciamaniche.

E' un messaggio che s'intreccia a quello che ci arriva dagli sciamani
Iglulik del Labrador, che, Rasmussen riferisce, si isolavano nella tenebra
in attesa che la luce erompesse dal loro interno, e sapevan tramutarsi nelle
varie belve della loro terra e del loro mare. E' lo stesso messaggio che ci
lasciano i romitì tibetani sequestrati ìn stanze buie in attesa dì scordare
la differenza tra tenebra e luce, concentrandosi sulla luce emanante dalle
proprie viscere. Lo stesso messaggio infine emerge dai maestri taoisti,
intenti a far fiorire il loro addome, a farlo accendere di lumi.

Così essi interpretavano il detto di Lao zi:"Riempi il ventre e svuota il
cuore", Visitavano nella fantasia paradisi dove gli alberi di vita e le
acque cristallline fornivano cibo e bevanda da tramutare il nero ventre in
mille luci, assorbivano gli effluvi degli astri, finché il fegato produceva
un ragazzo vestito dì verde, legato agli occhi; il cuore, legato al sangue,
un ragazzo vestito di rosso; i polmoni ed il naso un ragazzo vestito di
bianco; la milza legata a digestione ed escrezione un ragazzo vestito di
giallo; la cistifellea legata al vigore dei soffi un ragazzo vestito di ogni
tinta, un arlecchino; i reni infine, al fondo del corpo, un ragazzo vestito
di nero. I maestri taoisti insegnavano anche ad assorbire i raggi del sole,
facendoli scendere nei piedi e salire alla testa, fino a restame arrossati
in volto, simili ad un astro. Facevano scendere il soffio solare del cuore,
salire quello lunare dei reni e li fondevano insieme.

Abbiamo colto cenni al culto della luce nell'occidente diviso tra la
tradizione ebraica e la cristiana e poi nei vari mondi, il persiano, l'ìndù,
il cinese. Dovunque emergono delle verità universali, da tutti riconosciute
per poco che la mente abbia meditato a fondo. La luce è un'illusione, sia
l'esteriore, che ogni crepuscolo ci toglie in un bagliore rossastro, sia
l'interiore che disegna le immagini del sogno e della meditazione profonda
nella mente. Ma se si accetta la tenebra totale e ci si immerge in essa, si
vedrà finalmente la sua luce nella fonte della vita, dice l'immaginoso
Persiano. In parole diverse ripetono unanimi questa sequela gli sciamani, i
sapientì ìndù e i maestri platonici.

San Desiderio 24.05.1991

http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/zolla/luce.htm

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